domenica 22 maggio 2011

Gianfranco Staccioli/Ludobiografia prima parte

Gianfranco Staccioli, Ludobiografia: raccontare e raccontarsi con il gioco, Carocci, Roma 2010

Appunti di lettura – prima parte: la cornice teorica



Definizione di ludobiografia: “narrazione di sé attraverso molteplici strumenti ludici” (p. 9), “Ludobiografia è la scrittura (nelle sue varie forme) attuata in forma di gioco o rivolta a gioco e al giocare” (p. 10).
Va segnalato lo scarto tra gioco e ludicità. Dopo aver mostrato le ambiguità dell’idea di gioco, Staccioli osserva che: “il termine ludico ha anch’esso diverse ambiguità, ma perlomeno non si identifica con una cosa ambigua come il termine gioco o con un determinato gioco, o con un preciso regolamento di una partita. Ludico è un atteggiamento di disponibilità, è casomai più vicino a termini come “giocare”, “entrare in gioco”, “mettersi in gioco”. È più play che game” (p. 36). In tal senso è perfettamente coerente, facendo riferimento a Bruner, il parallelo tra il giocare e il vagabondare (p. 36).
Importanza attribuita alla relazione: “Ciò che può frenare il narrare e il narrarsi è la relazione. Si può raccontare quando si sa di essere accolti” (p. 10-11). Si potrebbe istituire un parallelo con le comunità di racconto di Jedlowsky.
Interessante il commento a la Galleria di stampe di Escher (p. 15) per sottolineare la sovrapposizione dei ruoli di osservatore ed osservato.
Il disegno infantile è di per sé una narrazione autobiografica (p. 17).
La ludobiografia come apertura e coinvolgimento: “La memoria ludobiografica è anche un atto di comunicazione, comunicazione con sé stessi e comunicazione con altri. In questo senso ciò che diventa importante non è comunicare “il certo” (anche se è giusto sforzarsi per farlo), quanto la nostra voglia di elaborare, di rappresentare un’opera aperta, incompleta, orientata verso ulteriori approfondimenti e visioni , curiosamente stimolante per noi e gli altri” (p. 25).
Articolazione basata sugli strumenti utilizzati : 1. grafie del nome: giocare con i nomi propri o altrui; 2. grafie nelle cose: si usano oggetti per stimolare ricordi ed emozioni; 3. grafie dentro di noi; 4. grafie delle immagini; 5. grafie del corpo (p. 41).


Una nota sulle conclusioni. Una esigenza indubbiamente condivisibile viene contrapposta alla dimensione digitale: “le relazioni fra le persone sono oggi quantitativamente enormi. Per “parlare” con altri basta chattare o conoscere certi programmi che utilizzano Internet. […] Eppure tutti siamo più soli. La dimensione delle relazioni globali passa attraverso l’individuo, non attraverso il gruppo reale, lo scambio tra pochi che possono guardarsi negli occhi […] Il bisogno di ritrovare una bolla protettiva, un luogo (seppur transitorio) di pausa, uno spazio dove la competizione non ha più senso, un paese dove si può ridere, soffrire, scherzare o commuoversi senza paura di giudizi, questo bisogno non è scomparso . L’esigenza profonda di stare con sé stessi e con altri in maniera “umana” rimane in ciascuno di noi” (pp. 138-139). L’ipotesi su cui lavorare è quella di una complementarietà reale/virtuale, dove le relazioni virtuali consolidano le reali.

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