domenica 29 luglio 2012

Riletture estive: Faeti, Guardare le figure


Antonio Faeti, Guardare le figure. Gli illustratori italiani dei libri per l’infanzia, Donzelli, Roma 2011
Una nota
Ieri è stata una giornata molto particolare, ma per distrarmi sono riuscito a terminare la rilettura della nuova edizione del bellissimo libro di Faeti ed ora posso mettere nella mia piccola biblioteca l’edizione della Donzelli accanto a quella originale del 1972 realizzata dall’Einaudi. La storia della letteratura per l’infanzia non è il mio ambito di ricerca, ma il discorso sull’uso delle immagini ha una portata che va ben al di là di studi storico-letterari. L’aspetto che mi ha colpito con forza è l’autonomia che il linguaggio delle immagini può avere nei confronti del testo a cui fa riferimento andando ben oltre una funzione didascalica: “I primi figurinai offrono, infatti, un prodotto contradditorio, realizzano opere che sembrano adatte a perseguire uno scopo, mentre possono ottenerne uno assai diverso. Mazzanti, per esempio, illustra alcuni dei libri più rigidamente inseriti nell’ambito della severa pedagogia italiana della fine del secolo, ma riesce a contrapporre, al contenuto dei testi, una sua visione alternativa che si rifà graficamente al deposito di simboli sui quali si basavano le stampe popolari” (p. 7 ma anche p. 27 e p. 44). Questo è un discorso interessante perché - di fronte all’attuale pervasività delle immagini, ed è un segnale che gli studiosi di storia della letteratura dell’infanzia si occupino di immagini – c’è stato un periodo in cui l’immagine ed il suo uso didattico-pedagogico veniva in definitiva osteggiata: “All’epoca di Mazzanti e Chiostri, l’illustratore del libro per l’infanzia “fruiva” di un’emarginazione che poteva risultare benefica e protettiva, almeno nei riguardi del suo lavoro. Le piccole immagini, non molto frequentemente sparse tra le pagine dei volumi editi alla fine dell’Ottocento, erano semplicemente tollerate dal pedagogico sussiego degli autori ai testi, che temevano di vedere “abbassato” o “tradito” il tono letterario dei loro volumi. Si pensava ancora ad un indottrinamento dell’infanzia, condotto soprattutto in termini verbali; lo spazio visivo concesso ai bambini era considerato quasi un dono, graziosamente elargito per poi richiedere una più attenta lettura del libro” (p. 358). Mi chiedo ancora oggi quanto una certa mentalità ottocentesca sospettosa nei confronti dell’immagine sopravviva e quanto ulteriore spazio servirebbe per una educazione all’immagine.  

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