Antonio Faeti, Guardare le figure. Gli illustratori italiani
dei libri per l’infanzia, Donzelli, Roma 2011
Una nota
Ieri è stata una giornata molto particolare, ma per
distrarmi sono riuscito a terminare la rilettura della nuova edizione del bellissimo
libro di Faeti ed ora posso mettere nella mia piccola biblioteca l’edizione
della Donzelli accanto a quella originale del 1972 realizzata dall’Einaudi. La
storia della letteratura per l’infanzia non è il mio ambito di ricerca, ma il
discorso sull’uso delle immagini ha una portata che va ben al di là di studi
storico-letterari. L’aspetto che mi ha colpito con forza è l’autonomia che il
linguaggio delle immagini può avere nei confronti del testo a cui fa
riferimento andando ben oltre una funzione didascalica: “I primi figurinai
offrono, infatti, un prodotto contradditorio, realizzano opere che sembrano
adatte a perseguire uno scopo, mentre possono ottenerne uno assai diverso.
Mazzanti, per esempio, illustra alcuni dei libri più rigidamente inseriti nell’ambito
della severa pedagogia italiana della fine del secolo, ma riesce a
contrapporre, al contenuto dei testi, una sua visione alternativa che si rifà
graficamente al deposito di simboli sui quali si basavano le stampe popolari” (p.
7 ma anche p. 27 e p. 44). Questo è un discorso interessante perché - di fronte
all’attuale pervasività delle immagini, ed è un segnale che gli studiosi di
storia della letteratura dell’infanzia si occupino di immagini – c’è stato un
periodo in cui l’immagine ed il suo uso didattico-pedagogico veniva in
definitiva osteggiata: “All’epoca di Mazzanti e Chiostri, l’illustratore del
libro per l’infanzia “fruiva” di un’emarginazione che poteva risultare benefica
e protettiva, almeno nei riguardi del suo lavoro. Le piccole immagini, non
molto frequentemente sparse tra le pagine dei volumi editi alla fine
dell’Ottocento, erano semplicemente tollerate dal pedagogico sussiego degli
autori ai testi, che temevano di vedere “abbassato” o “tradito” il tono
letterario dei loro volumi. Si pensava ancora ad un indottrinamento
dell’infanzia, condotto soprattutto in termini verbali; lo spazio visivo
concesso ai bambini era considerato quasi un dono, graziosamente elargito per
poi richiedere una più attenta lettura del libro” (p. 358). Mi chiedo ancora
oggi quanto una certa mentalità ottocentesca sospettosa nei confronti
dell’immagine sopravviva e quanto ulteriore spazio servirebbe per una
educazione all’immagine.