lunedì 25 giugno 2012

Turkle: ambiguità della solitudine


Sherry Turkle Insieme ma soli. Perché ci aspettiamo sempre più dalla tecnologia e sempre meno dagli altri, Codice edizioni, Torino 2012
Appunti di lettura
La Turkle scrive, come sempre, cose interessanti  e ben documentate, ma, a differenza di altre volte, forse perché il mio punto di vista e il mio approccio alle tecnologie sono stati, senza mio merito, più cauti e prudenti, mi trovo ad avere alcune perplessità.
La tesi del libro è, in sintesi, molto semplice. La prima parte è dedicata ai robot sociali e se ne critica l’uso in quanto non possono sostituire l’autenticità delle relazioni viso a viso. La seconda esamina in modo documentato  l’uso di cellulari, SMS, servizi di messaggistica e social network per concludere che, nuovamente, si sta perdendo l’autenticità delle relazioni umane. Il fatto di essere sempre connessi ci porta ad un fraintendimento dei rapporti: non vediamo l’altro in tutta la sua ricchezza, lo riduciamo alle nostre esigenze ed in realtà ci troviamo a vivere una solitudine intesa come isolamento.  L’impressione è quella di un lavoro scritto in reazione ad una forma di saturazione da tecnologie digitali. La saturazione da tecnologie digitali ha offerto lo spunto per individuare una serie tratti negativi che ha portato ad un ripensamento, sia pure parziale, rispetto a posizioni precedentemente formulate: “Dieci anni fa sostenevo che la fluidità, la flessibilità e la molteplicità delle nostre vite sullo schermo incoraggiassero il genere di sé che Robert Jay Lifton definisce proteiforme. Continuo a pensare che sia una metafora utile, ma il sé proteiforme è messo a rischio dalla persistenza delle persone e dei dati: la sensazione  di essere proteiforme si basa su un’illusione di un futuro incerto. L’esperienza di essere al computer o al cellulare sembra così privata che è facile dimenticarsi  quale sia la condizione reale: a ogni connessione lasciamo una traccia elettronica.  Analogamente, ho sostenuto che internet fornisca agli adolescenti degli spazi in cui giocare con l'identità relativamente privi di conseguenze, spazi che secondo Erick Erikson i giovani devono avere. La persistenza dei dati e delle persone mina anche questa possibilità” (p. 326).
Le osservazioni della Turkle sono, da un lato, da prendere in considerazione in quanto evidenziano una serie di questioni aperte come la privacy, la persistenza dei dati, la natura delle relazioni umane..., dall’altro pongono alcune questioni.
La prima è quella della ciclicità. Sicuramente, come molto ben mostrato recentemente da Maria Ranieri, va evitata una retorica tecnocentrica con le connesse forme di infatuazione per mode digitali. Viene però da chiedersi  se sia possibile sfuggire da forme marcate e ripetitive di oscillazione tra entusiasmi e delusioni procedendo per piccoli tentativi ed errori, progressivi aggiustamenti, intrecciando sperimentazioni  e riflessioni, uscendo così non semplicemente dalla retorica tecnocentrica ma dalla retorica in quanto tale.
La seconda è relativa al determinismo tecnologico. Siamo proprio sicuri che lo scadere dei rapporti umani, tanto dettagliatamente descritto dalla Turkle, sia imputabile solo ed esclusivamente alle tecnologie digitali? Senza cellulari e computer di nuovo gli adolescenti si ritroverebbero a parlare nella piazza del quartiere? E  nelle famiglie a cena si ritroverebbe quel dialogo tanto auspicato? E rinascerebbe la tanto giustamente evocata attenzione da parte dei genitori nei confronti dei loro figli? Forse un approccio ecologico, in cui le tecnologie digitali sono solo un elemento da prendere in considerazione, potrebbe  essere  più opportuno non solo per comprendere quanto accade ma anche per pensare a nuovi percorsi.
La terza osservazione è relativa infatti alle prospettive. Sono sicuramente interessanti e stimolanti i riferimenti a Thoreau e un Walden 2.0. Può essere condivisibile l’osservazione secondo cui “Il mio studio sulla vita in rete mi ha fatto riflettere a lungo sull’intimità: sullo stare con gli altri dal vivo, sentire le loro voci e vedere i loro volti, nel tentativo di conoscere il loro cuore. E mi ha lasciato con il pensiero della solitudine, quella che rinfranca e ristora” (pp. 362-363). Forse tutti vorremmo, come Thoreau, vivere un paio di anni in mezzo ai boschi camminando nella natura incontaminata. Il punto è, e la Turkle se ne rende conto, che non  si risolvono i problemi con la nostalgia del tempo che fu. E per quanto forme individuali di resistenza, piccoli gesti ed accorgimenti possono essere segnali importanti, la soluzione non può essere solo quella, proposta con maestria e garbo nella conclusione del volume, di riprendere a scrivere lettere ai propri cari lontani con carta e penna…            

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