Sherry Turkle Insieme ma soli. Perché ci aspettiamo sempre
più dalla tecnologia e sempre meno dagli altri, Codice edizioni, Torino 2012
Appunti di lettura
La Turkle scrive, come sempre, cose interessanti e ben documentate, ma, a differenza di altre
volte, forse perché il mio punto di vista e il mio approccio alle tecnologie
sono stati, senza mio merito, più cauti e prudenti, mi trovo ad avere alcune
perplessità.
La tesi del libro è, in sintesi, molto semplice. La prima
parte è dedicata ai robot sociali e se ne critica l’uso in quanto non possono
sostituire l’autenticità delle relazioni viso a viso. La seconda esamina in
modo documentato l’uso di cellulari,
SMS, servizi di messaggistica e social network per concludere che, nuovamente,
si sta perdendo l’autenticità delle relazioni umane. Il fatto di essere sempre
connessi ci porta ad un fraintendimento dei rapporti: non vediamo l’altro in
tutta la sua ricchezza, lo riduciamo alle nostre esigenze ed in realtà ci
troviamo a vivere una solitudine intesa come isolamento. L’impressione è quella di un lavoro scritto in
reazione ad una forma di saturazione da tecnologie digitali. La saturazione da
tecnologie digitali ha offerto lo spunto per individuare una serie tratti
negativi che ha portato ad un ripensamento, sia pure parziale, rispetto a
posizioni precedentemente formulate: “Dieci anni fa sostenevo che la fluidità,
la flessibilità e la molteplicità delle nostre vite sullo schermo incoraggiassero
il genere di sé che Robert Jay Lifton definisce proteiforme. Continuo a pensare che sia una metafora utile, ma il sé
proteiforme è messo a rischio dalla persistenza delle persone e dei dati: la
sensazione di essere proteiforme si basa
su un’illusione di un futuro incerto. L’esperienza di essere al computer o al
cellulare sembra così privata che è facile dimenticarsi quale sia la condizione reale: a ogni
connessione lasciamo una traccia elettronica.
Analogamente, ho sostenuto che internet fornisca agli adolescenti degli
spazi in cui giocare con l'identità relativamente privi di conseguenze, spazi che secondo Erick Erikson i giovani devono avere. La persistenza dei dati
e delle persone mina anche questa possibilità” (p. 326).
Le osservazioni della Turkle sono, da un lato, da prendere in considerazione in
quanto evidenziano una serie di questioni aperte come la privacy, la
persistenza dei dati, la natura delle relazioni umane..., dall’altro pongono
alcune questioni.
La prima è quella della ciclicità. Sicuramente, come molto
ben mostrato recentemente da Maria Ranieri, va evitata una retorica
tecnocentrica con le connesse forme di infatuazione per mode digitali. Viene
però da chiedersi se sia possibile
sfuggire da forme marcate e ripetitive di oscillazione tra entusiasmi e
delusioni procedendo per piccoli tentativi ed errori, progressivi aggiustamenti,
intrecciando sperimentazioni e riflessioni,
uscendo così non semplicemente dalla retorica tecnocentrica ma dalla retorica in quanto
tale.
La seconda è relativa al determinismo tecnologico. Siamo
proprio sicuri che lo scadere dei rapporti umani, tanto dettagliatamente
descritto dalla Turkle, sia imputabile solo ed esclusivamente alle tecnologie
digitali? Senza cellulari e computer di nuovo gli adolescenti si ritroverebbero
a parlare nella piazza del quartiere? E nelle famiglie a cena si ritroverebbe quel
dialogo tanto auspicato? E rinascerebbe la tanto giustamente evocata attenzione
da parte dei genitori nei confronti dei loro figli? Forse un approccio ecologico,
in cui le tecnologie digitali sono solo un elemento da prendere in
considerazione, potrebbe essere più opportuno non solo per comprendere quanto
accade ma anche per pensare a nuovi percorsi.
La terza osservazione è relativa infatti alle prospettive. Sono
sicuramente interessanti e stimolanti i riferimenti a Thoreau e un Walden 2.0.
Può essere condivisibile l’osservazione secondo cui “Il mio studio sulla vita
in rete mi ha fatto riflettere a lungo sull’intimità: sullo stare con gli altri
dal vivo, sentire le loro voci e vedere i loro volti, nel tentativo di
conoscere il loro cuore. E mi ha lasciato con il pensiero della solitudine, quella
che rinfranca e ristora” (pp. 362-363). Forse tutti vorremmo, come Thoreau,
vivere un paio di anni in mezzo ai boschi camminando nella natura incontaminata. Il punto è, e la Turkle
se ne rende conto, che non si risolvono
i problemi con la nostalgia del tempo che fu. E per quanto forme individuali di
resistenza, piccoli gesti ed accorgimenti possono essere segnali importanti, la
soluzione non può essere solo quella, proposta con maestria e garbo nella conclusione
del volume, di riprendere a scrivere lettere ai propri cari lontani con carta e
penna…
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