Sono riuscito a trovare il tempo per visitare, purtroppo velocemente, la mostra, curata da Antonella Sbrilli e Ada De Pirro, Ah, che rebus! Cinque secoli di enigmi fra arte e gioco in italia all’Istituto Nazionale per la Grafica a Palazzo Poli. Ne è valsa la pena: il rapporto tra l’immagine e la scrittura è una questione che mi ha sempre intrigato ed il percorso espositivo mi è sembrato estremamente ricco. Si va dalla riproduzione del ritratto di Lucina Brembate del Lotto, ai classici testi sulle imprese a partire da Giovio, dalla Hypnoerotomachia di Francesco Colonna alla Ars reminescendi di Giovan Battista della Porta, da Agostino Carracci, Stefano Della Bella, Giuseppe Maria Mitelli, a figure come Agostino Nini, incisore marchigiano che mi era sconosciuto, da Maurizio Calvesi e da de Chirico a Maria Ghezzi, altro personaggio scoperto grazie a questa occasione, da Schifano e Pericoli a Sanguineti e Balestrini, e l’elenco è solo parziale…Il catalogo, pubblicato da Mazzotta, offre ulteriori materiali. Il rebus, a chi spesso contrappone immagini e scrittura, si offre, come ricorda Antonella Sbrilli, come “esperienza espressiva […] in bilico fra diventare segno o diventare parola, immagine o narrazione” (p. 11).
Sarebbe davvero interessante approfondire, magari sulla scia di Benjamin, il rapporto fra abbecedari, uso didattico del rebus da un lato e le più ampie modalità di utilizzo delle immagini come mediatore didattico dall’altro. Troppo spesso le immagini sono contrapposte alla scrittura (anche se mi dà da pensare, come osserva Bartezzaghi, p. 18, che oggi nella creazione di un rebus la figura dell’autore è distinta da quella del disegnatore…) riprendendo, da quello che documenta Lina Bolzoni, una tradizione consolidata: “Bembo continuava a sostenere la superiorità della parola sull’immagine” (p. 102). Ricercare la complementarietà tra forme di espressione diversa può rappresentare una pista da seguire. Lorenzo Bonoldi e Federica Pellati ricordano, parlando dell’impresa rinascimentale, che “ciascun simbolo è […] scelto in quanto capace di raccontare qualcosa del suo detentore: un intento, un proposito, un’inclinazione caratteriale o altro. La stessa etimologia del termine sottolinea tale vocazione: la parola impresa deriva dal tardo latino imprensum, participio passato di imprendere, nel senso di “prendere sopra di sé”, “prefiggersi” un intento morale, un precetto o una norma” (p. 106). Esiste un filo che lega l’impresa rinascimentale con la cultura digitale: la creazione di un avatar o anche solo la scelta di una immagine per il proprio profilo o per presentare il proprio blog ha implicazioni identitarie simili…
Qui l'immagine della locandina: